Napoli, 3 novembre – Okay, diciamolo subito: portare il rap in acustico nel 2025 è tipo decidere di fare una maratona camminando. Puoi farlo, certo. Ma devi avere il coraggio per guardare tutti gli altri che ti superano di corsa e dire “io sto facendo un’altra cosa”. Rkomi ieri sera al Teatro Augusteo quel coraggio ce le aveva.

Due atti, una trentina di brani, zero compromessi. L’artista milanese ha scelto di spogliare tutto, beats, autotune, quella patina di perfezione digitale che ci fa sentire al sicuro, e ci ha detto: “ecco, questa sono io, nudo”. E Napoli ha ascoltato, anche se non sempre sapeva come reagire.
Il primo atto si è aperto con “Io in terra” e subito hai capito il mood: intimo, quasi sussurrato, come quando parli con qualcuno alle quattro di notte e dici cose che alla luce del sole non diresti mai.

“Milano Bachata” in acustico diventa un’altra cosa, tipo quando rileggi un messaggio dopo mesi e ci trovi significati che non avevi visto. “Dove gli occhi non arrivano”, “Dirti no”, “Blu”, ogni pezzo era una stanza diversa della stessa casa, e tu la attraversavi piano, quasi in punta di piedi.
Sì, è vero: brani come “Apnea” o “Solletico”, nati per far vibrare le casse, in acustico perdono un po’ di quella urgenza fisica. Ma forse è proprio questo il punto. Rkomi non voleva farci ballare, voleva farci sentire. E c’è differenza, tantissima. “Non c’è amore” senza Lazza dal vivo (presente solo in traccia) e “Cancelli di mezzanotte” hanno chiuso il primo atto con quella malinconia elegante che Rkomi sa fare meglio di chiunque altro nella scena.

Il secondo atto ha mantenuto la promessa: “Mai più”, “Ossigeno”, “Dieci ragazze”, tutto passato al setaccio dell’acustico, tutto rallentato, tutto amplificato nei dettagli. “Acqua calda e limone” live così ti entra sottopelle, “Diecimila voci” diventa ipnotica, quasi rituale.

E poi Ernia. L’ospite della serata che ha portato sul palco quella complicità che solo chi ha condiviso microfoni e nottate in studio può avere. Hanno rifatto insieme i loro featuring storici e lì, per qualche minuto, è successa quella magia che cerchi sempre ai concerti: due artisti che si completano, che si capiscono senza guardarsi.


La seconda parte ha continuato con “Insuperabile”, “Sto bene al mare” con Sayf, “Luna piena”, “La coda del diavolo” e “Nuovo range”, prima che “Il ritmo delle cose”, apparso sia nel primo che nel secondo atto, chiudesse il cerchio.
Allora sì, è stato un concerto diverso. Meno immediato, meno esplosivo. Rkomi ha scelto la profondità sul coinvolgimento diretto, l’arte sulla performance pura. E ci sta, anzi: ci vuole. In un panorama dove tutti cercano di urlare più forte, lui ha scelto di sussurrare. E per farlo ascoltare ci vuole più talento che per urlare.

Certo, il pubblico a volte sembrava un po’ spaesato, Napoli è calorosa per DNA, vuole partecipare, vuole esplodere, e l’acustico li teneva su una linea più meditativa. Ma è stata anche questa la bellezza: vedere un artista che non scende a compromessi, che dice “questo sono io adesso” e si prende il rischio.
Non è stato il concerto più euforico dell’anno, ma forse uno dei più onesti. E nell’era delle apparenze, dell’hype costruito a tavolino, della perfezione photoshoppata, un artista che sceglie di mostrarsi così, vulnerabile, imperfetto, umano, merita rispetto.
Rkomi ieri sera ha fatto arte. Punto. E l’arte non deve sempre farti saltare, a volte deve solo farti fermare. E pensare. E sentire.